Qualche settimana fa, mentre zappingavo sul web, mi sono imbattuta in un interessante articolo scritto a dicembre su Wired. L’articolo prendeva in esame la creatività nell’era dei dati e si poneva un interessante quesito che attanaglia molti di noi creativi vecchia scuola: l’era dei dati sta uccidendo la creatività?
L’articolo, in collaborazione con le analisi raccolte da Wavemaker, analizza attentamente la questione. Descrive come il settore creativo abbia subito un ingente cambiamento indotto dall’utilizzo dei dati. Aziende sempre più bramose di comparire in rete, anche a discapito di idee originali. La profilazione dell’audience, la misurazione e l’utilizzo degli algoritmi, condizionano troppo le agenzie e le aziende. La tendenza è in continua crescita e il processo creativo, in molti, troppi casi, ne sta risentendo.
Può l’ansia da visibilità sostituire la mente creativa?
Iniziamo dal dire, come fa l’articolo, che né la creatività né il marketing, quindi audience e dati, possono esistere autonomamente e devono per forza andare di pari passo ma può l’ansia da visibilità sostituire la mente creativa? Personalmente: assolutamente no!
Un’idea è un’idea, la creatività è frutto del tempo in cui il creativo opera, è influenzata da ciò che vive e vede. Quando un’idea è geniale e originale, lo è a prescindere dalle statistiche di un algoritmo! La creatività influenza il pubblico, lo ha sempre fatto e nessun algoritmo potrà mai sostituire un creativo. La differenza nella comunicazione e la qualità del materiale visivo/comunicativo si vede subito.
Quando dietro un progetto c’è un creativo, che se ne frega dell’algoritmo e fa goal ugualmente, dimostra che la smania da audience è solo l’ennesimo specchietto per le allodole da tastiera.
L’era dei dati sta uccidendo la creatività
Algoritmi, target, statistiche, influencer, generano mostri. Mostri di campagne pubblicitarie sterili, brutte, omologate e tutte uguali. Se Pantone decreta il The Color of the Year è un’esplosione monocromatica. Se Google lancia il font del mese è un “usiamo questo perché ce l’hanno tutti”. Insomma creativi o pecore? L’algoritmo ci rende gregge? Il creativo deve vivere di dati o di idee?
Nietzsche direbbe: il creativo è morto!
Il problema sono i dati, le aziende o gli pseudo creativi, che non hanno idea di cosa sia il “punto, linea, superficie” e non conoscono minimamente la teoria che sta dietro una campagna di comunicazione? Nell’era in cui persino un macellaio può diventare Mark Zuckerberg, abbiamo perso la fantasia. Prima ci si scontrava con il foglio bianco e la matita, ora ci si scontra con le bacheche di Pinterest e la wall di Instagram. Nietzsche direbbe: il creativo è morto! La crisi dei valori e il loro rifiuto, siamo nel 1881 e siamo tutti Zarathustra.
Il dibattito è sempre più acceso. I creativi e i marketer devono continuare a separare le due realtà. La creatività deve lavorare nella parte alta del funnel e i dati, in quella bassa. Tenere brand marketer e performance marketer nei propri settori. Mantenere la convenzione che i mass media si debbano occupare dell’area brand e il direct marketing dell’area analisi. Se i creativi dimenticano il proprio ruolo e si occupano più degli algoritmi, che di pensare, la comunicazione muore. I brand muoiono.
I dati crescono perché il consumatore non sarà in grado di distinguere un marchio di scarpe da uno di pentole. Martellato dagli algoritmi acquista senza neanche guardare il visual, vedere l’idea, scorgere il perché e per come di una campagna di comunicazione.
Quando una campagna fa scalpore? Quando una comunicazione fa parlare di se? Quando il creativo se ne sbatte dei dati e va contro corrente, smuove le coscienze, fa notare, come un pugno in faccia, la sua visione del mondo.
In conclusione: cari colleghi creativi, tenete un occhio sui dati, tornate a studiare la teoria e innamoratevi del bello, l’omologazione lasciatela nel carrello di Amazon.