Scroll to top

Non è un paese per grafici. Tre designer di origini sarde, che hanno preferito lavorare all’estero.


Eleonora Usai - 9 Settembre 2019 - 0 commenti


Tre art director. Tre designer. Tre illustratori di origine sarda. Manuela Fiori, Gian Nicola Bianco e la nostra cofondatrice Roberta Soru. Hanno scelto la stessa professione con stili differenti, provengono dalla Sardegna e le loro radici sono identiche. Con questa intervista vi raccontiamo che cosa li accomuna, cosa li distingue e soprattutto perché hanno preferito lavorare per e all’estero.

Ecco a voi UK, Brasile e Stati Uniti a confronto.

Per rompere il ghiaccio. A bruciapelo: vettoriale o raster?

Roberta: vettoriale

Manuela: questa è difficile. Direi raster ma solo perché al momento sto lavorando prevalentemente su illustrazioni a mano libera, scribing stile ‘comics’ e materiale che mi permette di utilizzare maggiormente Photoshop. Detto questo sono in procinto di iniziare una serie di illustrazioni tutte in vettoriale per un nuovo cliente. Il futuro sarà Illustrator!

Gian Nicola: raster

Quadricromia o RGB?

Roberta: quadricromia

Manuela: RGB. I miei lavori sono per l’80% digitali, anche se devo ammettere che negli ultimi tempi rappresentano praticamente il 100%!

Gian Nicola: RGB

Meglio fare il creativo in Italia o all’estero?

Roberta: parlando di qualità o validità dei progetti non c’è differenza. Quando un lavoro è stimolante non importa il luogo in cui lo si svolge. La mia condizione infatti è particolare, sono rimasta a vivere in Italia, ma la rete mi permette di lavorare quasi esclusivamente per clienti esteri. Per metà giornata praticamente, è come se mi trovassi nell’ufficio di New York. Parlando di salari e gratificazioni, estero senza remore.

Manuela: tricky! Non ho mai fatto la creativa in Italia o almeno, non a livello di illustrazione e immagino che non sarebbe di certo una passeggiata. Perciò la mia risposta è senza alcun dubbio ESTERO!
In Inghilterra posso fare dei lavori utopici (o quasi) nel territorio italiano.
Mi occupo spesso di visual thinking, scribing e graphic recording aziendale a Londra. La mia clientela fa parte di grosse aziende internazionali, una nicchia decisamente molto ristretta ma che mi rende meno schiava rispetto al tradizionale ruolo di grafico pubblicitario o illustratore editoriale.
Detto questo, nonostante si tratti di un lavoro ben remunerato, alcune problematiche rimangono, come ad esempio far capire al cliente il valore del tuo lavoro, le tempistiche, lavorare notte e giorno, intossicazione da caffeina ogni volta che si avvicina una scadenza, fissare il vuoto come gesto di ribellione quando ti chiedono l’ennesima revisione.. insomma, ci siamo capiti. 😉

Gian Nicola: in Italia, non so come sarebbe, dipende con quale tipo di cliente si ha a che fare, sicuramente nel nostro lavoro é un po’ uno scambio, se il cliente non crede nel tuo lavoro non ha senso, tanto all’estero quanto in Italia.

Si dice che il linguaggio della comunicazione sia universale, ma non è esatto. Cosa cambia progettare per idiomi, retaggi culturali e iconografie differenti da quella di origine?

Roberta: in progettazione non cambia assolutamente nulla. È la tua testa a cambiare. Si adegua a quel linguaggio, quella cultura, quegli schemi visivi. Noi italiani abbiamo un plus: la nostra cultura e istruzione ci hanno aiutati a ragionare e abituati al bello. Se si usa questa qualità innata, unendola a quelle acquisite nel paese in cui ci si trova, viene fuori il tanto apprezzato “made in Italy”.

Manuela: qui devo ammettere di essere un caso particolare. Dopo il liceo artistico (ai miei tempi purtroppo inutile) e due anni al Politecnico di Milano in Industrial Design, mi trasferii a Londra dove continuai gli studi. Ti parlo di quasi 18 anni fa, (sic!). All’epoca, essendo giovane e stando a stretto contatto con la gente del posto, assimilai con facilità e in modo spontaneo la cultura anglosassone (con i suoi pro e i suoi contro).
Non c’è dubbio che esistano delle differenze abissali soprattutto a livello accademico che generano discordanze anche a livello di progettazione. Avendo avuto la fortuna di sperimentare entrambe le metodologie inglese e italiana, ho potuto constatare immediatamente che il “grande enigma”della pratica vs teoria esiste davvero. Il 70% del mio corso di studi a Londra era basato sulla pratica (questa percentuale era prevista dal programma di studi stesso), contrariamente a quanto avviene in Italia, in cui la medesima percentuale è sostituita dal malloppo teorico (ho ancora vividissimi i ricordi delle mie tante dispense da 10 kg l’una del politecnico!). Ne consegue dunque un’immediatezza, un linguaggio più diretto, un umorismo sottile tipico dello stile inglese che non ha nulla a che vedere con quello decisamente più sfacciato e urlato all’italiana. Sono molte anche le discrepanze per ciò che riguarda il concetto di “gender”, inteso nel vero senso della parola anglosassone, ovvero identità sessuale (in Italia è ancora un termine che genera non poca confusione). E il razzismo.. anche questa questione viene vissuta in maniera differente.
Dopo tanti anni vissuti in Inghilterra, paese di cui ormai posso dire di averne compreso gli aspetti culturali, sono arrivata alla conclusione che il razzismo e il sessismo esistono, anche se in maniera meno sfrontata e decisamente più ‘politically correct’. Essendo un popolo di colonizzatori che si è dovuto redimere pubblicamente, accomodando così una popolazione multiculturale, stanno sempre molto attenti al “non offendere”, specialmente quando si tratta di campagne pubblicitarie e creative. O almeno ci provano..
D’altro canto penso che il metodo, o meglio l’approccio creativo italiano, sia meno specifico e più basato sulla cultura generale. Non sorprende che scienza, filosofia, archeologia e biologia mandino forti stimoli creativi quasi quanto facciano il mondo dell’arte, della tipografia e del design. Da tutto questo si può benissimo comprendere quanto cadere nel classico “Lost in translation” sia inevitabile. Spero di aver risposto in modo corretto.. potrei scrivere di questo argomento per ore!

Gian Nicola: qui mi sento più libero di esprimermi ed essere me stesso. Vivo in un paese multietnico, pieno di colori, stimoli culturali e visivi. Con una mentalità molto più aperta rispetto all’Italia.

Un progetto che hai realizzato e in Italia non avresti mai potuto fare.

Roberta: uno da 5mila euro al mese. In Italia è impossibile. Cifre simili puoi solo sognarle.

Manuela: quasi tutto ciò che ho fatto negli ultimi due anni tra scribing e graphic recording, ovvero prendere appunti visivi che aiutassero a capire che direzione stesse prendendo un progetto durante un business meeting. Tuttavia, credo che il più incredibile di tutti sia uno dei miei ultimi lavori: Un Legal Comic, un fumetto rivolto a facilitare la comunicazione interna di uno studio legale internazionale. Incredibile ma vero! Si tratta ancora di un “work in progress” ma mi sento felice e fortunata di aver avuto questa possibilità.

Gian Nicola: sicuramente un po’ tutti i progetti dove l’identità visiva é legata ai social media, Mi sembra di capire che in Italia ci sia una chiusura, l’uso amatoriale o una diffidenza a investire nei social. Il Brasile é praticamente il paese dei memes, per cui é normale che anche un piccolo imprenditore metta in conto di investire nei social mensilmente. Sanno che più professionalmente si appare nei social, più aumenta il giro dei clienti e quindi in teoria il proprio guadagno.

Il lavoro del designer in Italia è molto inflazionato, questo purtroppo ha rovinato in tanti casi il mercato, diminuendo salari e il rispetto verso questa figura. All’estero avete riscontrato situazioni analoghe o totalmente diverse?

Roberta: fortunatamente diverse. Mi è stato attributo il giusto merito. Ho riscontrato verso la mia professione molto apprezzamento. I designer sono molto richiesti e mi stupiva inizialmente, che mi venisse riconosciuto un volere decisivo per il business. I cugini designer esistono ovunque! Però a differenza dell’Italia, gli anni di studio contano e soprattutto contano le competenze, che i “cugini” ovviamente non possiedono. Questo è gratificante.

Manuela: si, senza alcun dubbio. Molti anche qui si riversano su piattaforme che offrono lavoratori a basso costo (come FIVERR) o ancora peggio, su concorsi (Freelancer) dove prima fai il lavoro e poi il cliente sceglie. Conveniente, no? Mi fa infuriare. Credo che oggi la soluzione sia specializzarsi in un qualcosa di molto preciso per sfuggire a questa piaga. Nel mio caso, mi sto specializzando in illustrazioni e contenuti visivi, oltre che in video esplicativi (per training, comunicazione aziendale interna, materiale educativo e informativo).

Gian Nicola: anche qui in Brasile, esiste la mania del cugino designer. Pur di risparmiare si vedono cose paurose! Ma grazie alla quantità di abitanti di questo paese enorme, il mercato é molto ampio. Esistono un sacco di clienti che sanno che pagare pochissimo per un lavoro, in realtà vuol dire penalizzare la propria impresa, Qui c’è un un detto: “Il baratto é caro!” Significa che pagare poco qualcosa, ti darà un sacco di problemi dopo!

Come siete riusciti a inserirvi, quali canali avete usato?

Roberta: mi sono inserita dall’Italia. Lavorando per aziende con interessi o sedi all’estero. Questo mi ha portato a essere riconosciuta, richiesta. Anche Instagram mi ha aiutata parecchio.

Manuela: in un mondo in cui tutto è digitale il punto di forza continua ad essere il networking: incontrare e confrontarsi faccia a faccia con le persone è il canale numero 1. I social ti servono come business card o portfolio, certo, ma la chiave sta principalmente nel partecipare ad eventi ed inserirsi nell’ambiente giusto al momento giusto. Creare una propria rete di contatti e farsi conoscere a livello lavorativo dipende tantissimo da ciò che si crea nel canale offline prima che in quello online.

Gian Nicola: ho iniziato a lavorare come photo editor in studi di fotografia, in un secondo momento mi sono avvicinato a piccoli studi grafici, fino ad arrivare alle agenzie di pubblicità e adesso riesco a lavorare da casa. Ci sono voluti circa 8 anni.

Qual é il giusto approccio e mentalità per lavorare in un paese diverso dal tuo?

Roberta: open mind sempre e spirito di adattamento. Noi italiani spesso non ci adattiamo facilmente, vedi la mania di partire con una caffettiera in valigia o ricercare la nostra cucina ovunque! Però siamo molto creativi, la fantasia nel trovare sempre soluzioni ai problemi, fa parte della nostra cultura. Fare il designer vuol dire appunto, trovare una soluzione a un problema. Siamo avvantaggiati.

Manuela: penso che sia importante non solo imparare la lingua locale, ma soprattutto assorbirne i sapori e gli odori (compresi quelli che fanno schifo!eheheh) le strade, gli eventi, le mostre, i mercatini, i parchi, i mezzi di trasporto, i piccoli bar, i locali e la musica. Non avere paura di confrontarti con la gente del posto! sii curiosa/o, entra nei pub e parla con gli anziani, impara le canzoni tradizionali, i detti, gli slang e perfino le filastrocche! (sembra una fesseria ma vi assicuro che raccontano tanto della cultura di un paese). Questo è per me imparare una lingua, capirne la mentalità, entrare nelle sue storie e viverla pienamente.

Gian Nicola: pazienza, determinazione, creatività.

Qualche consiglio per giovani creativi che volessero provare un’esperienza all’estero?

Roberta: di farla assolutamente. Soprattutto in agenzie internazionali. Lavorare con persone provenienti da tutto il mondo aiuta ad aprire la mente, influisce sul modo di pensare e insegna a vedere le cose in maniera differente e da prospettive completamente opposte.

Manuela: suggerirei l’approccio di cui ho parlato in precedenza, senza indugio il networking e gli eventi (molti sono gratuiti) sono la scelta più efficace per aprirsi la strada in questo mondo. L’inizio sarà duro, tenendo in conto che il mondo creativo a Londra è estremamente competitivo. Siate pronti a fare anche due lavori alla volta perché i costi sono alti ma gli stipendi per chi inizia sono rimasti fermi a quelli di 15 anni fa.
Per questo bisogna partire con le idee chiare e prefissarsi un obiettivo. Con queste nozioni in mente, per quanto non risulti facile, si può fare carriera. Mi piacerebbe poter essere più positiva ma credo che una versione realistica dei fatti possa aiutare meglio i giovani che desiderano affacciarsi al creative.

Gian Nicola: aspettatevi e cercare di sapere fare un po’ di tutto: web design, graphic design, mkt digital, illustrazione. Partire dall’avere conoscenza di tutto e specializzarsi dopo, in un solo ambito.

Com’è l’Italia creativa vista da lì?

Roberta: ci invidiano alcune cose sicuramente. L’estro, la fantasia e come dicevo prima: il problem solving, la capacità di risolvere le difficoltà molto in fretta.

Manuela: l’Italia è ancora la culla del romanticismo. Penso che gli italiani nel mondo del design siano ancora visti come dei professionisti con un’ampia cultura. Nonostante le difficoltà che i creativi incontrano ogni giorno e nonostante la scarsità di investimenti nel settore artistico, l’impronta di paese romantico, artistico e creativo resiste. C’è da dire però che malgrado l’interesse e l’ammirazione, tutto ciò che è anglosassone continua a passare automaticamente in prima linea, creativi inclusi, a prescindere dal talento.

Gian Nicola: qui sbavano. Se dici Italia, automaticamente pensano alla qualità.

Link per approfondire:

Roberta: sito webInstagramFacebookBehance

Manuela: sito webInstagramFacebookBehance

Gian Nicola: InstagramFacebookBehance

Post simili

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.